Tutela delle vittime di bullismo tra lacune normative e posizioni giurisprudenziali.

Sempre più spesso la cronaca narra episodi di bullismo angoscianti e cruenti che si consumano tra i più giovani, soprattutto pre-adolescenti. La scarsa tolleranza per la diversità in ordine all’appartenenza etnica, alle caratteristiche fisiche, all’orientamento sessuale, alle scelte di vita, talvolta si traduce in comportamenti aggressivi, atti di intimidazione, sopraffazione da parte del soggetto forte, non di rado supportato e ulteriormente rafforzato dal gruppo, a danno del più debole. La personalità non ancora matura dei protagonisti rende il fenomeno allarmante e di forte impatto sociale. Tuttavia, giuridicamente parlando esso non trova ancora una precisa definizione. Nel campo delle responsabilità penali, ad esempio, non è disciplinato un reato di bullismo. La legge penale può reprimere, di volta in volta, singole condotte ad esso collegabili quali le percosse, le lesioni, la minaccia, la diffamazione, attraverso le corrispondenti fattispecie criminose. Talvolta gli atti di bullismo arrivano ad integrare anche reati insidiosi ed ingravescenti: l’estorsione, lo stalking, il revenge porn, ma anche il reato di violenza privata, ad esempio, quando si induca la vittima in uno stato di soggezione psichica e di coercizione della volontà tali da ledere la sua capacità di autodeterminazione (Corte di Cassazione, V Sez. Penale, Sent. 5 gennaio 2021, n. 163).

Ugualmente, in ambito civilistico risultano carenti i riferimenti normativi specifici. Rileva in proposito la legge n. 71 del 2017, dedicata alla tutela dei minori ed al contrasto agli atti di cyberbullismo che, in sostanza, prevede procedure mirate alla eliminazione delle conseguenze degli illeciti, come ad esempio l’oscuramento di pagine web e siti internet, e ad individuare responsabilità peculiari a carico degli istituti scolastici in ordine alla prevenzione ed alla repressione del fenomeno.

Un disegno di legge sul bullismo giace al senato dal 2020, incentrato sull’educazione, la prevenzione, il recupero del bullo e la tutela delle vittime. Il legislatore si era posto l’obiettivo ambizioso di educare al rispetto e alle emozioni per contrastare e prevenire il fenomeno, coinvolgendo genitori, scuole e all’occorrenza il Tribunale minorile. In ambito penale, ad esempio, l’art. 1 della proposta andava a modificare l’art. 612-bis c.p.: la norma al primo comma avrebbe dovuto punire anche le condotte in grado di porre la vittima in una condizione di emarginazione. Inoltre, erano previste modifiche alla legge n. 71/2017, al fine di porre maggiore attenzione sull’importanza della formazione e dell’educazione.

Alle inerzie del legislatore ha provato di volta in volta a porre rimedio la giurisprudenza che, al contrario, ha sempre dimostrato particolare attenzione e sensibilità rispetto al tema in questione. I Tribunali, in particolare, sembrano aver adottato una “linea dura” sia contro i diretti responsabili, che nei confronti delle figure adulte di riferimento, genitori in primis, introducendo principi volti a rafforzare la tutela delle vittime e a prevenire gli illeciti.

Oltre alla responsabilità dei giovani “bulli” a fronte degli atti trasgressivi e violenti commessi a danno di coetanei più deboli, è stata parimenti riconosciuta la responsabilità di genitori ed insegnanti: forte disvalore è stato attribuito alle condotte omissive di tali soggetti, a partire dalla mancata sorveglianza negli ambienti scolastici da parte degli insegnanti, fino allo scarso controllo ed impegno educativo in casa da parte dei genitori.

Gli insegnanti ed i dirigenti scolastici chiamati in causa, secondo la giurisprudenza, sono tenuti a provare non solo di aver vigilato sugli studenti, ma anche di aver messo in pratica strumenti educativi e preventivi contro il bullismo. Sugli stessi soggetti grava, inoltre, l’onere di vigilare e controllare che non si verifichino episodi di isolamento, minacce e violenze private, tenendo in considerazione soprattutto l’età degli alunni e prestando quindi maggiore attenzione ai più piccoli (Trib. Di Bologna, sent. 633, 29 dicembre 2020; Trib. Di Roma, sent. 11249, 31 giugno 2021).

Ma, come accennato, non tutta la responsabilità pesa sulla scuola. La c.d. “culpa in educando” dei genitori ha infatti un peso maggiore della “culpa in vigilando” degli insegnanti, tale che è assai difficile dimostrare che l’evento derivante dal bullismo fosse imprevedibile da parte dei genitori.

Per la Corte di cassazione questi ultimi devono dare il buon esempio, insegnando ai figli a comprendere il disvalore delle proprie condotte, «visto che l’educazione è fatta non solo di parole ma anche e soprattutto di comportamenti» (Cass. Civ., Sent. 18804, 28 agosto 2009). Il dovere educativo dei genitori non si riduce alla vigilanza, ma si estende all’obbligo di controllare che il figlio non intraprenda attività illecite, non frequenti compagnie che potrebbero avere su di lui una influenza negativa e in generale che abbia effettivamente assimilato l’educazione impartita ed i valori trasmessi (Tribunale per i minorenni di Caltanissetta, decreto dell’11 settembre 2018).

Anche la divulgazione su internet di video da parte di ragazzi in età preadolescenziale è una condotta che secondo i giudici è assolutamente prevedibile da parte dei genitori, così come il cyberbullismo che può derivarne. «Per questo i genitori hanno l’onere di controllare smartphone e pc dei figli adolescenti (…)» (Tribunale di Brescia, Sent. 1955, 22 giugno 2017; Tribunale di Parma, Sent. 698, 5 agosto 2020).

In questo ricco panorama giurisprudenziale, la pronuncia più densa e significativa attualmente rimane l’Ordinanzan. 22541, 20 giugno 2019, della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, con la quale la Corte, oltre ad aver chiarito alcuni aspetti giuridici della vicenda, ha offerto importanti spunti di riflessione sul fenomeno del bullismo, sul ruolo dell’ordinamento in generale e sull’importanza dell’educazione impartita dai genitori.

Il caso riguarda un giovane adolescente, ancora minorenne, che in ambiente scolastico era da tempo soggiogato e vittima di atti di bullismo da parte di un suo coetaneo. Nel corso di un litigio il ragazzo reagiva sferrando un pugno in faccia al suo rivale e provocandogli delle lesioni al volto. Da vittima quindi diveniva autore di reato, pur concludendosi il giudizio penale instaurato nei suoi confronti con una sentenza di non luogo a procedere emessa dal Tribunale per i minorenni, stante l’occasionalità dell’episodio che lo aveva coinvolto.

Successivamente lo stesso veniva citato in giudizio dinnanzi al Tribunale civile, insieme ai genitori, ai fini della condanna in solido al risarcimento dei danni a favore del “bullo” aggredito. Il Tribunale escludeva la responsabilità dei genitori per l’accaduto ed, anzi, accertava la sussistenza del concorso di colpa del danneggiato nel verificarsi dell’evento dannoso.

La sentenza veniva impugnata e la Corte d’Appello adita riformava la decisione di prime cure condannando esclusivamente il responsabile dell’aggressione al risarcimento dei danni a favore del danneggiato, ritenendo che la reazione del ragazzo fosse causa autonoma del danno e non conseguenza della provocazione. Inoltre, anche i genitori dell’aggressore venivano ritenuti responsabili in solido per la condotta del figlio minore, ex art. 2048 c.c.

Contro siffatta pronuncia i genitori del ragazzo adivano la Corte di cassazione, muovendo  censura con riguardo alla loro condanna in solido con il figlio per quanto accaduto, nonché in riferimento al mancato riconoscimento del contesto di vittimizzazione all’interno del quale aveva avuto luogo la reazione aggressiva del figlio minore. Tale ultima circostanza avrebbe, almeno, dovuto orientare diversamente i giudici nella valutazione equitativa dell’entità del danno da risarcire.

La Corte ha ritenuto il primo motivo inammissibile confermando, in maniera lapidaria, la sussistenza della responsabilità dei genitori nel caso specifico.

In particolare, secondo i giudici di legittimità, i ricorrenti si erano limitati, sia in primo grado che in appello, ad invocare l’esenzione da responsabilità del proprio figlio giustificando il comportamento di quest’ultimo quale reazione agli atti di bullismo ed ai soprusi di cui la vittima lo aveva reso oggetto, dimostrando in realtà, proprio con tali argomentazioni, di non aver percepito il disvalore della condotta del figlio e la gravità del fatto imputatogli. Invece, nessuna prova era stata fornita in ordine alla vigilanza sul giovane ed allo standard di educazione a questo impartita.

Secondo la Corte, infatti, la prova liberatoria richiesta ai genitori dall’art. 2048 c.c., di non aver potuto impedire il fatto illecito compiuto dai figli minori, impone lo sforzo di dimostrare non solo una vigilanza adeguata all’età della prole, ma soprattutto che l’educazione impartita sia consona all’età dei figli e agli ambienti in cui questi sono liberi di muoversi, «riuscendo i figli stessi a trarne profitto e a porla in atto, in modo da vivere autonomamente ma correttamente».

Con riguardo al secondo motivo di ricorso relativo al concorso di colpa della “vittima” ex art. 1227 c.c., la Cassazione ha riconosciuto «l’incapacità del giudice di secondo grado di penetrare il contesto situazionale in cui si erano svolti i fatti».

Lucidamente, la Corte ha affermato che, pur dovendosi neutralizzare e condannare l’istinto di vendetta del minore bullizzato, è innegabile che la risposta ordinamentale non possa essere solo quella della condanna dell’atto reattivo come comportamento illecito a sé stante, ignorando quindi le situazioni di svantaggio e di privazione che ne costituivano il sostrato. Infatti, l’ignoranza e la sottovalutazione possono attivare un circolo negativo di «vittimizzazione ulteriore».  Nel quadro probatorio, inoltre, non risultava alcun riferimento riguardo all’intervento delle istituzioni, della scuola. In particolare, non era chiaro se questa fosse mai intervenuta per arginare il problema, per sostenere ed aiutare il ragazzo vittima di bullismo, o per condannare pubblicamente il comportamento adottato dai bulli: se, il ragazzo è stato lasciato da solo ad affrontare il conflitto, a subire tali condizioni vittimizzanti, «è più comprensibile l’aggressività della sua reazione». Come osservato dalla Corte, infatti, trattandosi di un ragazzo adolescente «non era legittimo attendersi una reazione razionale, controllata e non emotiva».

I giudici di legittimità hanno, inoltre, osservato come gli episodi di bullismo non diano mai vita ad un conflitto meramente individuale e richiedano un insieme di interventi coordinati che, oltre a contenere il fenomeno stesso, fungano da diaframma tra l’autore degli atti di bullismo e le persone offese.

Un sistema efficace in tal senso, come indicato dalla Corte stessa, può individuarsi nei meccanismi di giustizia riparativa, magari specificamente calibrati sul fenomeno del bullismo, attraverso cui è possibile “calarsi” all’interno delle situazioni, dei contesti particolari, per cercare e trovare soluzioni definitive ai conflitti relazionali. A riprova di ciò emerge il dato che vede proprio nel settore della giustizia minorile in generale un terreno fertile per la giustizia riparativa. A tal proposito il Garante per l’infanzia e l’adolescenza nel dicembre 2018 ha reso pubblico il Documento di studio e di proposta dal titolo La mediazione penale e altri percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale minorile. Al suo interno, oltre a contenere diversi approfondimenti giuridici in materia, il Documento offre puntuali riferimenti alle esperienze ed alle buone prassi di giustizia riparativa instauratesi in diverse parti del territorio nazionale al fine di facilitare un ricorso più costante a tali percorsi che ancora non godono di un pieno riconoscimento normativo, nonostante la vantaggiosità degli stessi sia stata negli anni largamente comprovata.

Nell’attesa che il ricorso a tali programmi di giustizia riparativa, come auspicato dalla Corte, si diffondano e divengano “prassi”, la risposta giuridica deve tener conto di tutte le circostanze in cui il fatto illecito ha preso forma, in modo da rispondere alle istanze di «giustizia sostanziale» pervenendo alla «più corretta delle soluzioni possibili». Anche perché, come ricorda la Corte con questa singolare pronuncia, pur non spettando al giudice esprimere valutazioni di tipo etico e sociale relativamente al comportamento dei consociati, non deve ritenersi preclusa la possibilità di offrire risposte, certamente incardinate sul piano giuridico, ma «capaci di collocarsi diaframmaticamente nelle dinamiche interpersonali che promanano dai sempre più frequenti processi vittimogeni che coinvolgono soprattutto le giovani generazioni».

Avv. Livia Bongiorno (Rete Dafne Italia)

Leggi la sentenza