La “pena naturale” nei reati colposi realizzati ai danni di un prossimo congiunto: quando l’imputato è vittima del suo stesso reato.

Trib. Firenze, I sez. penale, Ord. 20 febbraio 2023.

Il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 c.p.p., «nella parte in cui, nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso».

L’ordinanza fa espresso riferimento alla nozione della c.d. “pena naturale”, ossia il caso paradigmatico in cui l’imputato avrebbe già sofferto un male di carattere fisico, morale od economico, per effetto della sua stessa condotta illecita ed al di fuori della risposta sanzionatoria dell’ordinamento.

Il caso oggetto della pronuncia riguarda un uomo accusato di avere causato la morte del nipote, figlio di suo fratello, a seguito di più violazioni colpose della normativa in materia antinfortunistica. Durante l’istruttoria è stato accertato che la vittima lavorava come manovale nella ditta edile dello zio durante le opere per la riparazione del tetto di un capannone, «in un contesto contrassegnato sia dalla mancata formalizzazione dei rapporti, sia dalla sottoremunerazione del lavoro, sia dal mancato rispetto da parte del committente delle più basilari disposizioni in materia di sicurezza». Tuttavia, anche l’imputato, nonostante le circostanze e la posizione di marcato svantaggio economico rispetto al committente, si rendeva responsabile del mancato rispetto di alcune norme cautelari, con efficienza causale rispetto al verificarsi dell’evento fatale per il nipote suo dipendente. Nel corso dei lavori al tetto della struttura, infatti, scoppiava improvvisamente un incendio e la vittima, che lavorava sguarnita di imbragatura di sicurezza, precipitava da circa nove metri di altezza per il crollo della superficie sulla quale si appoggiava.

Così accertato il fatto di reato e la responsabilità penale dell’imputato, il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale, ritenendo ingiusta l’applicazione della sanzione penale data la sofferenza già patita dall’accusato per la perdita del giovane nipote. Nell’ordinanza è stato sottolineato come fosse evidente il profondo dolore dell’imputato per la morte della vittima con la quale intercorreva un forte legame, infatti, il giovane, di origini straniere, lontano dalla famiglia, viveva da solo con lo zio. L’imputato, inoltre, era stato il primo soccorritore, trovato dalle forze dell’ordine intervenute sul posto accovacciato sul giovane nel disperato tentativo di rianimarlo.  I genitori, la sorella e la moglie della vittima costituiti parte civile nel processo a carico del committente, separatamente giudicato, decidevano invece di non costituirsi parte lesa nel procedimento a carico dello zio imputato, proprio per il legame parentale e la tragicità dell’evento che aveva colpito tutta la famiglia, accusato compreso.

Per tali ragioni il Tribunale fiorentino ha ritenuto di dover interpellare la Corte costituzionale: nel tentativo di vedere introdotta nell’ordinamento italiano la possibilità per il giudice di emettere una sentenza di non doversi procedere nei confronti dei responsabili di reati colposi qualora l’applicazione di una pena risulti sproporzionata in considerazione del dolore già patito dall’autore del reato, potendone così senz’altro beneficiare anche l’imputato del processo de quo.

In particolare, il Collegio ha voluto dare rilevanza al caso più grave di poena naturalis, limitando la questione ai reati colposi nei casi in cui dalla condotta dell’agente sia derivata la morte di un prossimo congiunto e, soprattutto, quando la sofferenza patita dall’imputato sia stata proporzionata, o in molti casi, superiore alla gravità del fatto commesso.

La Corte ha osservato come, attualmente, l’ordinamento italiano non contempli alcuna possibile rilevanza della pena naturale, se non nei limiti generali del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche o nell’ambito della commisurazione giudiziale della pena. In realtà, si tratta di un istituto che, oltre a vantare illustri origini nel pensiero filosofico, trova accoglienza in numerosi ordinamenti stranieri come, solo a titolo di esempio, quello tedesco o svedese ove si parla, rispettivamente, di “pena manifestamente inappropriata” e “chiaramente irragionevole” laddove gravi conseguenze del fatto di reato hanno colpito direttamente anche l’autore. In Italia si ricordano alcuni tentativi di introduzione di cause di astensione dalla pena o di non punibilità in caso di pena naturale da parte delle commissioni Vassalli (1991), e Pisapia (2006), proposte in definitiva mai approvate.

Fatte tali premesse il giudice a quo, alla stregua dei principi affermati nella Costituzione, ha ritenuto che l’ordinamento penale italiano dovesse in qualche misura attribuire rilevanza all’istituto della pena naturale e che tale novità potesse trovare introduzione tramite l’intervento della Corte costituzionale, almeno con riferimento al caso più tragico in cui l’autore del reato colposo abbia con la propria condotta cagionato la morte di un congiunto.

La mancata previsione della possibilità per il giudice di astenersi dal pronunciare una sentenza di condanna in simili casi, secondo il Tribunale fiorentino, pare violare i principi costituzionali sotto tre distinti profili: il principio di proporzionalità della pena, il principio della ragionevolezza-proporzionalità della pena e il divieto di pene disumane.

Il primo profilo deriva, come noto, dagli artt. 3 e 27, co. 3, Cost., per cui secondo il rimettente il giudice nel giudizio costituzionale di proporzionalità della pena, dovrebbe tenere conto dell’eventuale pena naturale già patita dal reo, «con la rilevante conseguenza per cui la risposta sanzionatoria ordinamentale dovrebbe considerarsi nel complesso sproporzionata – e dunque contraria a Costituzione –  ogni qual volta, per effetto dello stesso fatto illecito, il relativo autore abbia già subito un’afflizione paragonabile a quella che lo Stato vorrebbe produrre con la propria sanzione o addirittura notevolmente superiore, quale quella normalmente conseguente alla morte di un prossimo congiunto».

Un secondo profilo di illegittimità attiene alla possibile violazione degli artt. 3 e 13 della Costituzione in ragione della compressione non necessaria della libertà personale dell’individuo.

Il Tribunale ha affermato, riportandosi ad alcune pronunce della Corte costituzionale, che per limitare i diritti fondamentali dei singoli, come quello della libertà personale, è necessario che le disposizioni limitative siano volte alla tutela di un altro diritto o perseguimento di un altro interesse costituzionalmente rilevante, in ossequio ai principi di idoneità, necessità e proporzionalità (Corte Cost., sent. 20/2017; Corte Cost. sent., 191/2020; Corte Cost., sent. 148/2022). In via generale, l’applicazione di una pena si ritiene utile avuto riguardo della sua funzione general preventiva e special preventiva, oltre che rieducativa nei confronti del condannato. Ebbene, secondo il giudice rimettente nessuna di queste funzioni verrebbe assolta nel caso dell’applicazione di una pena nei confronti di colui che abbia commesso un reato colposo cagionando la morte di un congiunto. Partendo dalla funzione di prevenzione generale della pena, che di norma si genera attraverso l’efficacia dissuasiva delle norme incriminatrici e la previsione astratta di condanna del singolo che abbia commesso un reato, secondo i giudici fiorentini non pare avere alcuna rilevanza nel caso in cui l’autore del fatto abbia già patito una sofferenza adeguata in relazione alla morte del congiunto. In tal caso, infatti, «chiunque, constatando le possibili gravi conseguenze della violazione delle regole cautelari (in termini di morte del congiunto), sarebbe indotto a osservare dette regole a prescindere dalla punizione o meno dell’autore del reato».

La punizione non sarebbe necessaria neppure avendo riguardo della funzione special-preventiva: «l’autore del reato si asterrà infatti dal commettere nuovi fatti analoghi in ragione dell’esperienza personale delle gravi conseguenze della sua condotta colposa, a prescindere dall’applicazione da parte del giudice di una pena». Né potrebbe assolvere alla funzione rieducativa prevista dall’art. 27, co. 3 Cost.: «a fronte dell’enorme sofferenza determinata dalla morte del congiunto, la pena non potrebbe infatti assolvere ad alcuna finalità rieducativa»; al contrario, potrebbe essere percepita «quale irragionevole accanimento dello Stato» nei confronti dell’imputato/vittima del reato.

L’ultimo profilo di incostituzionalità paventato dal Tribunale riguarda la violazione del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità di cui all’art. 27, co. 3 Cost. Ebbene, secondo il rimettente, «processare e punire in relazione ad un reato colposo chi abbia già patito e stia ancora patendo, in ragione della cagionata morte del congiunto, una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso pare contrario al senso di umanità che permea l’intera Costituzione». In simili casi, in realtà, «una volta accertata la responsabilità dell’imputato, l’inesorabilità della condanna pare essere, più che una scelta consapevole dell’ordinamento, la fredda conseguenza di rigidi automatismi, quasi l’applicazione di un sillogismo noncurante della sottostante vicenda umana di sofferenza; al contrario, la nostra Costituzione pone l’individuo al centro del sistema (…)». Dunque una pena priva di ogni utilità e fine a sé stessa si riduce ad un atto «irrazionale e disumano».

Il tema della pena naturale trattato dalla pronuncia che qui si commenta presenta margini assai delicati che dovrebbero essere affrontati a livello istituzionale e delineati secondo la discrezionalità del legislatore. Nonostante la cronaca racconti di frequente casi simili alla vicenda oggetto del provvedimento in analisi, quest’ultimo non è mai intervenuto e i diversi dibattiti a livello dottrinario e politico non hanno mai condotto ad una novella normativa.

In tale contesto il contributo della Corte costituzionale potrebbe essere determinante nello stabilire il corretto grado di valutazione de parte del giudice della particolare tragicità delle vicende umane sottostanti il fatto di reato accertato durante il processo. Vicende in cui l’imputato è anche vittima del proprio reato, in cui intere famiglie sono segnate dal dolore, in cui la punizione dell’imputato finirebbe per costituire un ulteriore grave pregiudizio anche per gli altri parenti superstiti. L’ordinanza qui segnalata rappresenta, infine, per la Corte un’occasione per intervenire e far luce su alcuni delicati aspetti quali l’effettiva portata del divieto di pene contrarie al senso di umanità, così come sulle criticità delle scelte di criminalizzazione dell’ordinamento italiano.

Avv. Livia Bongiorno (Rete Dafne Italia)

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