La Corte di cassazione sul reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso: ratio legis e ambito applicativo.

Cass., Sez. V Penale, Sent. 22 febbraio 2024, n. 7728.

La Corte di cassazione con la sentenza in esame ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Palermo, la quale, aderendo alla pronuncia di primo grado, aveva ritenuto accertata la penale responsabilità dell’imputata in ordine al delitto previsto dall’art. 583 quinquies c.p.

In particolare, la donna era stata ritenuta responsabile del reato ascritto per aver cagionato alla persona offesa lesioni personali con un morso all’orecchio sinistro, così determinando il distacco di quasi metà del padiglione auricolare, dal quale ne era derivato lo sfregio permanente del viso.

L’imputata proponeva ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.

Con i primi due lamentava la violazione di legge da parte della Corte d’Appello per aver ritenuto applicabile la fattispecie di cui all’art. 583 quinquies c.p., al caso specifico, nonostante, a parere della ricorrente, tale norma, introdotta dalla legge 69 del 2019 (C.d. Codice Rosso), sia riferibile non a qualunque lesione al volto, bensì solo a quelle conseguenti a reati di violenza di genere e/o domestica, dunque non applicabile ai fatti de quo, scaturiti dalla lite fra due donne e non da una relazione o da violenza di genere.

Con il terzo motivo la ricorrente denunciava il vizio di legge e di motivazione della pronuncia di secondo grado relativamente alla sussistenza dei presupposti per poter valutare la lesione cagionata alla persona offesa quale “sfregio permanente al volto”.

Il quarto motivo, infine, per rilevare la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla carenza dell’elemento soggettivo del delitto, ossia della concreta volontà della donna di cagionare un danno permanente al volto della vittima, non potendo ritenersi, secondo la ricorrente, «adeguata la sola analisi della condotta, della foga e della volontà bellicosa dell’autrice del delitto per trarne la prova della sussistenza del dolo».

La Corte di cassazione ha ritenuto il ricorso infondato con riferimento ad ogni motivo proposto dalla ricorrente.

In primo luogo, con riferimento all’ambito applicativo del reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, la Corte ha osservato come, sebbene la volontà del legislatore di trasformare l’aggravante speciale (prevista dall’abrogato art. 583, co. 2, n. 4, c.p.), in fattispecie autonoma di reato sia derivata dai noti e ripetuti episodi di violenza domestica e di genere che hanno avuto eco nella cronaca nazionale, ciò non significa che si sia inteso limitare l’applicazione della fattispecie solo a tali specifici contesti.

La norma di nuovo conio, infatti, a differenza di quanto affermato dalla ricorrente, non è stata esclusivamente destinata a sanzionare condotte commesse nell’ambito della violenza domestica e di genere. Evidenzia la Corte come la lettera della legge non indica né il genere della persona offesa, né tantomeno l’ambito nel quale la condotta debba essere maturata. La norma, invero, è rivolta a «chiunque cagiona ad alcuno lesione personale dalla quale derivano la deformazione o lo sfregio permanente del viso».

Pertanto, anche seguendo il criterio dell’interpretazione letterale imposto dall’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, richiamato dalla ricorrente, la norma assume chiaramente natura e portata “generale”.

Oltre al dato letterale, anche la collocazione della disciplina in esame tra i delitti contro la persona (più in particolare, tra i delitti che prescindono dal contesto familiare o di genere, come l’omicidio o le lesioni personali), secondo la Corte, esclude la caratterizzazione limitante proposta dalla ricorrente.

Atre due le considerazioni svolte dalla Corte. La prima attiene al “vuoto” sanzionatorio fra la disciplina precedente che, in modo generale, prevedeva le lesioni personali qualificate come gravissime in caso di deformazione e sfregio permanente del viso, senza alcuna limitazione di violenza di genere e domestica, e quella attuale che verrebbe a punire solo le condotte correlate, nell’impostazione difensiva, alla violenza di genere o domestica. In realtà, afferma la Corte, è chiaro ed evidente che l’intenzione del legislatore, trasformando la circostanza aggravante dell’art. 583, comma 2, n. 4 c.p., in un delitto autonomo con maggiore pena edittale minima e massima, «non fosse quella di ridurre l’ambito delle condotte dolose sanzionabili, bensì di assicurare un trattamento di maggior rigore, elidendo la discrezionalità del giudice espressa nel giudizio di bilanciamento fra circostanze operabile con il precedente regime».

A riprova della natura “comune” del delitto in parola, il Collegio ha rilevato, altresì, che il legislatore ha specificamente stabilito, per il caso in cui il reato di sfregio o deformazione permanente del viso intervenga in ambito di violenza domestica o di genere, che tali elementi di relazione e di contesto siano interpretati quali circostanze aggravanti del reato ex art. 585 c.p.: «la previsione di tali aggravanti, proprio per la commissione del delitto in contesto domestico o di violenza sessuale e di genere, esclude che l’art. 583-quinquies, nella sua previsione di base, debba applicarsi solo a tali ultime ipotesi, come invece sostiene la ricorrente».

In sostanza, l’innovazione normativa ha previsto che le relazioni affettive o domestiche fra autore del reato e persona offesa costituiscano una ragione di aggravamento della pena per la maggiore vulnerabilità delle vittime, a tutela dei beni della libertà e dell’incolumità personale che devono essere garantiti nei contesti in cui matura la violenza di genere o domestica.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha dichiarato l’infondatezza delle censure svolte con i primi due motivi dalla ricorrente, affermando che l’art. 583-quinquies c.p., introdotto dalla legge 69/2019, costituisce reato comune sia quanto all’autore del reato sia con riferimento alla persona offesa.

Pur ritenendo il terzo motivo manifestamente infondato, indicazioni di rilievo sono state fornite dalla Corte con riguardo alla natura “permanente” dello sfregio.

In particolare, anche sulla base di alcuni precedenti giurisprudenziali, il Collegio ha osservato come, nel caso di specie, risulti immune da manifeste illogicità la valutazione operata a riguardo dal Giudice di primo grado, confermata dalla Corte d’Appello: «l’asportazione di quasi metà del padiglione auricolare ebbe a determinare comunque un turbamento irreversibile dell’armonia e dell’euritmia delle linee del viso, con effetto sgradevole, sufficiente, anche in assenza di ripugnanza (Cass. pen., Sez. 5, n. 32984 del 16/06/2014), non essendo richiesto uno sfiguramento ripugnante o una sensibile modificazione delle sembianze (Cass. pen. Sez. 5, n. 4113 del 18/02/1997), ma risultando sufficiente un’apprezzabile alterazione delle linee del volto che incida, sia pure in misura minima, sulla funzione estetico-fisiognomica dello stesso (Cass. pen., Sez. 5, n. 27564 del 21/09/2020), compromettendone l’immagine in senso estetico (Cass. pen., Sez. 5, n. 26155 del 21/04/2010).

Sul punto la Corte ha, inoltre, precisato che, ai fini della sussistenza dello sfregio permanente, «non rileva la possibilità di eliminazione o di attenuazione del danno fisionomico mediante speciali trattamenti di chirurgia facciale, in quanto l’eventuale limitazione degli effetti estetici del danno costituisce un post factum non collegato alla condotta di aggressione» (dello stesso avviso, Cass. pen. Sez. 5, n. 23692 del 07/05/2021).

Infine, la motivazione della Corte di Appello è stata ritenuta corretta anche in ordine al quarto motivo di ricorso, riguardante la sussistenza, nel caso in esame, della coscienza e della volontà dell’autrice del reato nel cagionare le gravissime lesioni alla persona offesa e, dunque, la sussistenza degli elementi costitutivi del dolo.

La Corte territoriale ha, infatti, desunto e tratto la prova del necessario dolo generico proprio dalla condotta dell’autrice del reato, osservando come «si trattò di un’azione tesa a ledere (…) ebbe a pedinare, aggredire e prendere a morsi la persona offesa, per gelosia; morse in modo prolungato e con violenza l’orecchio della vittima determinando il distacco del padiglione auricolare».

Sulla base di tali rilievi, la Cassazione ha ritenuto che i Giudici di secondo grado abbiano fatto buon governo dei generali principi in materia, in quanto la prova dell’elemento soggettivo può desumersi dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione criminosa, attraverso le quali è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto.

La Corte ha concluso con il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente alle spese processuali.

Avv. Livia Bongiorno (Rete Dafne Italia)

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