Vittime di “straining” sul lavoro: l’azienda paga i danni per l’ambiente stressogeno.
Cass. Civ., Sez. lav.,Ord. n. 29101/2023, dep. 19.10.2023.
Con l’Ordinanza n. 29101 depositata il 19.10.2023, la Suprema Corte di cassazione ha stabilito che anche un solo atto “stressogeno” da parte del superiore gerarchico nei confronti del lavoratore dipendente fa scattare il diritto al risarcimento del danno.
Posto che il mobbing rappresenta la più nota e grave forma di “maltrattamento” del lavoratore dipendente, tra i fenomeni cd. stressogeni legati alla sfera lavorativa si può distinguere anche tra il semplice “mal d’ufficio”, inteso come amplificazione da parte del lavoratore delle normali difficoltà sul luogo di lavoro, e le forme intermedie dello straining e del demansionamento. Queste ultime possono manifestarsi singolarmente o, talvolta, confluire nella fattispecie più grave e dai contorni più ampi: laddove sussiste un’intenzione vessatoria, il demansionamento, ad esempio, può costituire uno dei possibili volti dello straining e del mobbing.
Lo straining, a sua volta, è stato definito come una forma di “mobbing attenuato”, dotato, cioè, di un grado di conflittualità lavorativa di minor intensità ma, comunque, fonte di responsabilità del datore di lavoro a titolo contrattuale ed extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 2043 c.c.. Una condizione psicologica posta a metà strada tra il mobbing e il semplice stress occupazionale, che si configura quando vi siano comportamenti stressogeni che producono effetti dannosi permanenti nel tempo, scientemente attuati nei confronti di un dipendente, «anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero e distanziate nel tempo» (Cass. Civ., Sez. lav., n. 15159/2019; n. 18164/2018). Esso, infatti, è caratterizzato dall’istantaneità dell’evento: il comportamento scorretto del datore di lavoro può esaurirsi in un unico episodio isolato che genera un disagio nel lavoratore, oppure può attuarsi tramite più azioni anche tra loro scollegate.
Alcune pronunce recenti hanno ritenuto configurabile lo straining anche in assenza di prova dell’elemento soggettivo dell’intento persecutorio delle condotte vessatorie. In sostanza, il datore di lavoro è tenuto ad evitare situazioni stressogene che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno più tenue «anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio» (Cass. Civ., Sez. lav., n. 3291/2016; n. 7844/2018; n. 18164/2018; n. 24883/2019).
Il riconoscimento giuridico dello straining è dettato dal timore che i comportamenti isolati, restino impuniti: è, infatti, innegabile che una persona isolata e professionalmente svilita, soffra intensamente a livello di autostima, di socialità, di qualità di vita, riportando un danno esistenziale, relazionale e professionale, in accordo con l’idea per cui il lavoro non rappresenta soltanto una fonte di guadagno, ma anche il mezzo attraverso il quale esprimere la propria personalità (artt. 2, 3 e 4 Cost.).
La Corte, con il provvedimento in commento, ha sostenuto proprio tale argomentazione nel cassare la sentenza del Giudice d’appello con la quale non era stato riconosciuto alcun risarcimento al lavoratore vittima di straining.
Il caso riguarda un dipendente di una telco che al termine del secondo grado di giudizio aveva ottenuto, a seguito di demansionamento, il diritto all’inquadramento superiore nel quinto livello CCNL e il pagamento delle differenze retributive, oltre alla integrazione del TFR.
La Corte d’appello aveva però negato al lavoratore il risarcimento dei danni per mobbing a causa della «mancata prova della reiterazione della condotta riferita ai singoli atti mobbizzanti (demansionamento, totale stato di inattività ed emarginazione, trasferimento persecutorio, pressioni per accettare la mobilità)». E ciò nonostante avesse accertato i “rapporti stressogeni” della dirigente «con tutti i dipendenti ma in specie nei confronti dell’appellante» verso il quale attuava una «stressante modalità di controllo».
Né il Giudice di seconde cure aveva valorizzato il fatto che nel corso di una discussione dai toni accesi con la dirigente, il lavoratore fosse rimasto vittima di un attacco ischemico: come ricostruito da una testimone, «la dirigente, a seguito di problemi informatici, aveva preso posto al computer del collaboratore, facendolo alzare mentre stava lavorando, e aveva cancellato diversi file. Di fronte alle rimostranze rispose “ora cercheremo di ripristinarli; del resto io sono la capa; io comando e faccio quello che voglio”. A quel punto la discussione si animò e lei non faceva niente per smorzare i toni, si alterava sempre di più, fino a quando abbiamo visto il collega adagiarsi sulla sedia e sentirsi male. La supervisor chiamò un ambulanza e il collega fu ricoverato e ritornò dopo tanto tempo». Il Giudice d’appello, però, ha negato l’illiceità della condotta trattandosi a suo avviso di “episodio isolato”.
Il lavoratore impugnava quindi la sentenza così pronunciata e investiva del ricorso la Corte di cassazione denunciando, tra le altre cose, la falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. La Corte d’appello, infatti, pur avendo accertato le condotte della superiore, aveva negato qualsiasi tipo di tutela risarcitoria in relazione alla domanda svolta, affermando che andasse negata l’illiceità delle condotte trattandosi di episodi isolati che esulavano dalla sistematicità di una condotta vessatoria persecutoria o discriminatoria reiterata e protratta nel tempo, omettendo così di inquadrare i fatti nella fattispecie codicistica di cui all’art. 2087 c.c.
La Corte di cassazione adita, ritenendo i motivi di ricorso fondati, ha affermato che la Corte d’appello non aveva fatto buon governo delle regole di diritto che vengono in rilievo in relazione alla tutela della personalità morale del lavoratore, essendo ormai risalente l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, «al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta, in questa materia, è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c., da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento, ossia la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica» (Cass. Civ., Sez. lav., n. 3291/2016).
Dunque, secondo la Corte, la reiterazione, l’intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono eventualmente incidere sul quantum del risarcimento ma «è chiaro che nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno». La Cassazione ha, altresì, evidenziato come lo straining, nonostante rappresenti una forma attenuata di mobbing poiché priva dell’elemento della continuità delle condotte, sia pur sempre riconducibile all’art. 2087 c.c. «sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta» (Cass. civ. Sez. lav. n. 33428/2022; n. 16580/2022; 18164/2018; 7844/2018).
Inoltre, una recente pronuncia della Corte ha assegnato valore dirimente al rilievo dell’ “ambiente lavorativo stressogeno” quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c. (Cass. Civ. Sez. lav. Ord. 7 febbraio 2023; negli stessi termini v. Cass. civ. n. 33639/2022; 33428/2022; 31514/2022).
La Corte, alla luce dei principi richiamati, ha accolto il ricorso cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte d’appello territorialmente competente per la prosecuzione della causa.