Violenza sessuale: quali i tempi di reazione della vittima?

 Tribunale di Busto Arsizio, sezione penale, sentenza del 26 gennaio 2022, n. 95.

 «La violenza sessuale è figlia di una concezione dei rapporti sessuali ancora basata sull’idea della conquista della c.d. preda sessuale che, se non reagisce attivamente alle iniziative, si dimostra per ciò solo in re ipsa disponibile a cedere all’altrui volontà». Questa l’interpretazione personale del delitto di stupro fornita da un autorevole autore della dottrina penalistica nel 1989 (T. Padovani, Violenza carnale e tutela della libertà, in Riv. It. Dir. proc. pen., 1989).

Ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni, tale concezione può dirsi non soltanto sopravvissuta ma ancora profondamente radicata nella società. Una società dove le donne vittime di violenza sessuale, allorquando decidono di denunciare l’accaduto, oltre a trovarsi di fronte a diversi ostacoli nell’accesso alla giustizia, si trovano a dover subire anche la pressione degli stereotipi di genere e ad affrontare i dubbi sulla propria credibilità ed inconcepibili accuse di colpevolezza.

Ciò che disorienta è che tali illazioni talvolta provengono non solo dalle masse, ma anche da chi si trova a giudicare i fatti di reato.

In Italia, in particolare, persiste il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita. Un pregiudizio che in un certo senso trova conferma anche nel codice penale, dove all’articolo 609-bis si prevede che il reato in parola sia ancora necessariamente collegato agli elementi della violenza, della minaccia, dell’inganno, o dell’abuso di autorità. Laddove, quindi, per la specificità del caso concreto, la costrizione all’atto sessuale derivi da condotte difformi rispetto a quelle previste dalla norma, la parte offesa corre il rischio di essere ritenuta non credibile, ovvero responsabile delle “avances subite” per non aver espresso chiaramente un dissenso, per non aver saputo reagire alla violenza in modo manifesto.

E intanto rimangono impunite le condotte che rubano fugacemente porzioni di intimità, che violano l’inviolabile spazio della libertà individuale, il diritto all’autodeterminazione di ognuno nella sfera della propria sessualità.

Questo è proprio quanto accaduto con la pronuncia che qui si segnala, emessa dal Tribunale penale di Busto Arsizio, che clamorosamente ha assolto dall’accusa di violenza sessuale l’imputato per insussistenza degli elementi costitutivi della norma incriminatrice, nonostante, a parere degli stessi giudici, non vi fosse alcun dubbio sulla credibilità della persona offesa, né sulla valenza sessuale degli atti compiuti dall’imputato.

Il caso riguarda una donna, assistente di volo, che, rivoltasi ad un collega sindacalista per vicende contrattuali, si incontrava con questo presso gli uffici dell’aeroporto, al fine di ottenere un consiglio su una vertenza lavorativa che la riguardava in prima persona, ed in tale frangente rimaneva vittima di atti sessuali compiuti da parte dell’uomo.

In particolare, il Collegio ha ritenuto carenti gli elementi della violenza, della minaccia e dell’abuso di autorità, affermando che la condotta dell’accusato non ha implicato alcun costringimento fisico della vittima: «gli atti sessuali si sono protratti per un tempo di circa trenta secondi in cui ella ha continuato a leggere i documenti senza manifestare alcun dissenso (…); inoltre, la costrizione non può desumersi neanche dal contesto ambientale, che certo non era tale da vanificare ogni possibile reazione della vittima: si trovava in un ufficio di una struttura pubblica, quale l’aeroporto di Malpensa, la cui porta d’ingresso non è certo che fosse stata chiusa a chiave, sicché la parte offesa era nelle condizioni di potersi allontanare».

I giudici del Collegio hanno concluso le inammissibili motivazioni escludendo, altresì, la sussistenza del coefficiente psicologico richiesto per l’integrazione della fattispecie di cui all’art. 609-bis c.p., poiché l’imputato «non fu posto nelle condizioni di apprezzare il dissenso della vittima, posto che lo stesso non fu né esplicitato, né manifesto per fatti concludenti chiaramente indicativi di una contraria volontà». Invero, il Tribunale ha goffamente sottolineato come la posizione dei due soggetti (la parte offesa seduta alla scrivania e l’imputato in piedi alle sue spalle), impedisse all’uomo di percepire eventuali espressioni di contrarietà della donna.

La sentenza appena enunciata rappresenta fortunatamente ormai un unicum nel panorama della giurisprudenza in materia. Affermare, infatti, che la vittima avrebbe potuto, e dovuto, reagire entro i trenta secondi in cui si è consumata l’azione dell’aggressore vuol dire ancora una volta addossare alla persona offesa la responsabilità della violenza da lei stessa subita, stigmatizzare la reazione o la non reazione della vittima in base a dei luoghi comuni, a dei pregiudizi personali piuttosto che a massime di esperienza ed evidenze scientifiche. Al contrario, è stato ampiamente dimostrato come sentimenti di angoscia, paura, vergogna, talvolta condizionano la vittima bloccando ogni sua iniziativa di reazione contro l’odiosa offesa che si trova a subire.

Al contempo, appare chiara la grave esposizione della donna agli effetti della vittimizzazione secondaria: nonostante la puntualità con cui la persona offesa ha descritto l’evento vissuto e i diversi riscontri esterni a conferma dell’accaduto, il Collegio ha giudicato negativamente la sua mancanza di reazione agli atti sessuali subiti, ritenendo la sua contrarietà agli stessi talmente incerta da non poter essere percepita dall’imputato.

In realtà, il Tribunale di Busto Arsizio non ha dato atto, e nemmeno ha tenuto conto, del superamento della rigida frontiera della condotta vincolata del reato di violenza sessuale rispetto ai parametri di cui all’art. 609-bis c.p.

In passato non sono certo mancate decisioni irrispettose delle esperienze dolorose delle vittime e, soprattutto, noncuranti delle evoluzioni giuridiche che in tema di violenza sessuale iniziavano a farsi strada: basti pensare, ad esempio, alla assai discussa, ed immediatamente smentita, pronuncia della Corte di cassazione con cui veniva annullata la sentenza di condanna dello stupratore poiché la vittima indossava i “jeans”: «i jeans non possono essere sfilati nemmeno in parte se chi li indossa non dà una fattiva collaborazione; (…) è impossibile togliere i jeans a una donna che si oppone con tutte le sue forze e questo è un dato di comune esperienza» (Cass. pen. 6 novembre 1998, n. 1636).

Fortunatamente, tramite interpretazioni estensive della fattispecie di violenza sessuale è stato riconosciuto di volta in volta il disvalore dell’azione anche nel caso di atti subdoli e repentini, ma non meno insidiosi. La giurisprudenza è riuscita, progressivamente, a fornire esegesi sempre più ampie delle condotte tipizzate, tanto da privarle di una effettiva portata selettiva.

In particolare, secondo la Corte di cassazione, ad oggi le previsioni codicistiche di violenza, minaccia o abuso di autorità, vanno intese, in generale, quale costrizione dell’offeso a compiere o a subire l’atto sessuale, laddove, la nozione di costrizione esprime a sua volta semplicemente la mancanza di un libero consenso all’atto stesso (Cass. Pen., Sez. III, 12.02.2020, n. 5512).

Inoltre, e stato più volte sottolineato come a carico della vittima non vi sia alcun onere di espressione del dissenso all’intromissione di soggetti terzi all’interno della sua sfera di intimità sessuale: al contrario si deve ritenere che tale dissenso sia da ritenersi presunto laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare l’esistenza di un consenso (Cass. pen., Sez. III, 15.10.2019, n. 42118).

D’altronde, anche a livello sovranazionale le indicazioni in tal senso non mancano: sia per la Corte europea dei diritti dell’Uomo che secondo la Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, lo stupro è un “rapporto sessuale senza consenso”. L’articolo 36, paragrafo 2, della Convenzione specifica che il consenso «deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto».

Tra l’altro, a riguardo, il GREVIO, organismo di monitoraggio della Convenzione, ha esortato vivamente le autorità italiane a considerare di modificare la propria legislazione «affinché il reato di violenza sessuale si basi sulla nozione di consenso prestato liberamente» (Rapporto di Valutazione (di Base) sull’Italia, 2020).

Al contempo, emblematici risultano i moniti espressi dalla Corte di Strasburgo che in più di un’occasione ha ricordato come, storicamente, la prova di una condotta violenta da parte del molestatore, così come di una resistenza da parte della vittima, sono stati a lungo considerati requisiti tipici del reato di violenza sessuale in molti paesi, ma, ad oggi, gli stessi non possono più essere considerati tali dagli Stati membri, «cosicché ogni riferimento alla forza fisica dovrebbe essere rimosso dal diritto positivo» (Corte EDU M.C. v. Bulgaria del 4 dicembre 2003).

In definitiva, viste le ancora possibili ricadute degli interpreti nei vecchi schemi di inquadramento della fattispecie di cui all’art. 609-bis c.p., che non tutelano né valorizzano appieno la persona offesa, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore sul punto mirante alla criminalizzazione di tutti gli atti sessuali non consensuali, indipendentemente dalla resistenza espressa o meno dalla vittima, e alla qualificazione degli elementi della violenza, della minaccia o dell’abuso di autorità  quali mere circostanze aggravanti, qualora contestualmente esercitate sulla persona offesa.

Avv. Livia Bongiorno (Rete Dafne Italia)