Stato di necessità per reati commessi da vittime di tratta: la Corte di cassazione riconosce il principio di non incriminazione ex art. 54 c.p. nell’ambito del contrasto al delitto di tratta di esseri umani.

Con la sentenza n. 2319 del 2024, la Corte di cassazione ha ritenuto applicabile la scriminante dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., a chiunque, vittima di tratta di esseri umani, abbia commesso dei reati in connessione o come conseguenza della situazione in cui è stato costretto, o comunque quando risultino provate la condizioni di vulnerabilità e di asservimento che gli impedivano di sottrarsi alla situazione di pericolo ricorrendo alla protezione delle autorità competenti.

Il caso oggetto della pronuncia riguarda una donna che, costretta a fuggire dalla Nigeria e sottoposta a gravi violenze, compresi numerosi stupri, subiti per raggiungere l’Italia, aveva tentato di estinguere l’ingente debito accumulato con i trafficanti prima con l’attività di prostituzione e, poi, divenendo “corriere” della droga.

Condannata in sede di appello per trasporto illecito di sostanze stupefacenti, ha proposto ricorso per cassazione lamentando la mancata applicazione, da parte dei giudici d’appello, della causa di giustificazione prevista dall’art. 54 c.p., ossia dello “stato di necessità”.

La sentenza di secondo grado, infatti, nonostante contenesse la previa esplicazione di come l’imputata avesse commesso il reato in ragione della sua situazione di vulnerabilità socio-economica e della mancanza assoluta di autonomia e di indipendenza, era giunta comunque a poter  escludere che l’imputata si trovasse nell’assoluta impossibilità di recidere i contatti con il contesto criminale da cui era derivata la commissione del reato, condannandola quindi per il reato ascritto.

La Corte di cassazione ha ritenuto fondato il ricorso presentato dalla donna considerando le motivazioni dei giudici di appello lacunose e generiche, specie perché «del tutto avulse dallo specifico contesto nel quale la vittima si è trovata ad operare», ed ha concluso per la possibile applicazione dello stato di necessità nei confronti di persone vittime di tratta ricorrendo a un complesso apparato argomentativo, basato sulle indicazioni ricavabili dalle fonti internazionali ed europee.

In particolare, la Corte ha osservato come tra le fonti di diritto internazionale sia di particolare rilevanza la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani (c.d. Convenzione di Varsavia), poiché contiene al suo interno una specifica causa di non punibilità per i reati commessi in condizione di costrizione (art. 26).

Sul versante Europeo ha evidenziato invece l’operato della Corte di Strasburgo, la quale ha riconosciuto il principio di non incriminazione delle vittime di tratta con la decisione del 16 febbraio 2021, V.L.C. e A.N. contro Regno Unito. In tale occasione, infatti, i giudici di Strasburgo hanno precisato come, sebbene dal diritto internazionale non possa ricavarsi alcun generale divieto di procedere penalmente nei confronti di una vittima di tratta, deve ritenersi, tuttavia, che un procedimento penale nei confronti di vittime, anche solo potenziali, di tratta potrebbe porsi in contrasto con il dovere dello Stato di adottare misure a tutela delle stesse.

Ancora nell’ambito del diritto dell’Unione europea la Cassazione ha osservato come il contrasto alla tratta degli esseri umani, in particolare di donne e minorenni, costituisca una priorità tanto da essere previsto sia nel trattato di Lisbona, sia nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui vi è una specifica disposizione che definisce la tratta una violazione dei diritti fondamentali, sancendone il divieto i termini assoluti (art. 5, par. 3).

Tra i numerosi atti di indirizzo e strumenti normativi approvati dall’Unione europea la Corte ha posto l’accento, in particolare, sulla Direttiva 2011/36/UE, sulla prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime. All’art. 8 della Direttiva si trova il dettato normativo ispirato al principio di non incriminazione delle vittime di tratta per i reati commessi in connessione o conseguenza della situazione in cui sono costrette: si legge testualmente che «gli Stati membri adottano le misure necessarie, conformemente ai principi fondamentali dei loro ordinamenti giuridici, per conferire alle autorità nazionali competenti il potere di non perseguire né imporre sanzioni penali alle vittime della tratta di esseri umani coinvolte in attività criminali che sono state costrette a compiere come conseguenza diretta di uno degli atti di cui all’art. 2».

Anche la Direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, inquadra la tratta di esseri umani nel più ampio contesto della violenza di genere, includendo poi le vittime di tratta tra quelle maggiormente esposte al rischio di vittimizzazione secondaria.

Alla luce dell’articolato panorama dell’ordinamento sovranazionale, recepito nel sistema interno, la Corte ha affermato la necessità di riconoscere come cruciale il principio di non incriminazione della vittima di tratta nell’ambito del contrasto a tale grave forma di condotta delittuosa. Tale principio, secondo la Corte, va riconosciuto sulla base di un dato fattuale, emerso anche nel caso specifico della ricorrente, «derivante dall’essere le persone trafficate frequentemente coinvolte in attività illecite proprio a causa della pressione, anche economica, derivante dalla grave violazione dei diritti umani che subiscono, sì da escludere qualsiasi forma di autonomia decisionale per il potere ricattatorio cui sono costrette».

La Corte, quindi, ha affermato che i delitti oggetto dell’eventuale valutazione di non incriminazione possono essere di diverse tipologie: non solo quelli direttamente collegati alla condizione di irregolarità della vittima di tratta o, ancora, quelli con cui ci si appropria dei proventi criminosi (furto, sfruttamento della prostituzione, traffico di stupefacenti), ma anche i cosiddetti reati di liberazione, commessi, cioè, per sottrarsi dallo sfruttamento, anche di soggetti terzi. A quest’ultima categoria, precisa la Cassazione, andrebbero ricondotti anche i reati che, pur in assenza di una diretta coercizione, sono causalmente collegati alla condizione di sfruttamento nella quale versa la vittima di tratta, nota all’istigatore e da quest’ultimo sfruttata. In tutti questi casi, infatti, il potere ricattatorio cui le vittime di tratta sono costrette escluderebbe qualsiasi forma di autonomia decisionale: la condizione di vulnerabilità delle vittime, quindi, si trova in connessione diretta con il sostanziale annullamento della loro libertà di scelta.

La corte ha, quindi, concluso stabilendo che il giudice, quando è chiamato ad operare il bilanciamento tra opposti interessi in relazione a reati commessi dalle vittime di tratta, a ciò costrette dalla loro posizione di vulnerabilità relazionale, è tenuto ad interpretare l’art. 54 c.p. in maniera conforme alla lettera e alla ratiodegli obblighi internazionali costituiti in particolare: a) dalla tutela dei diritti umani inalienabili delle vittime di tratta; b) dal divieto di vittimizzazione secondaria derivante dal sottoporle ad un processo penale non dovuto anche in una logica di non contraddizione  dell’ordinamento; c) dall’interdizione ad esporre, con i propri atti giudiziari, lo Stato ad una possibile responsabilità a causa di interpretazioni che violino i doveri assunti attraverso gli art. 10, 11 e 117 Cost., e il conseguente obbligo di interpretazione conforme.

Ha, dunque, disposto l’annullamento della decisione impugnata, rinviando ad altra Sezione della Corte territorialmente competente per un nuovo giudizio, ove si tenga conto del quadro dei principi sovranazionali esposti al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 54 c.p., in ordine al reato in materia di stupefacenti commesso dall’imputata.

Avv. Livia Bongiorno (Rete Dafne Italia)