Piccoli alunni vittime di violenza nelle scuole: illegittimo il ricorso ad ogni forma di sopraffazione.

Quando un bambino colpisce un bambino, si parla di aggressione.

Quando un bambino colpisce un adulto, si parla di ostilità.

Quando un adulto colpisce un adulto, si parla di assalto.

Quando un adulto colpisce un bambino, lo chiamiamo disciplina.

(Haim G. Ginott)

 Docenti scolastici intemperanti, maestre che “perdono la pazienza” con i bambini più introversi umiliandoli verbalmente, che minacciano i più vivaci e disobbedienti di poterli rinchiudere in un armadietto. Un insegnante di sostegno che spinge la testa del piccolo alunno contro il lavandino e contro il water. La casistica riguardante la violenza e le aggressioni degli insegnati nei confronti degli alunni durante le ore di lezione è ampia e, nonostante a difesa di tali condotte si inneggi sempre alle finalità educative ed alla necessità di mantenere l’ordine e la disciplina tra i banchi, in realtà è di tutta evidenza la violazione non soltanto di norme deontologiche, disciplinari e contrattuali, ma anche di precetti penali.

In materia di educazione del minore e, più in generale, di promozione e tutela dei diritti dell’infanzia, lo strumento normativo più importante e completo è di matrice internazionale, la Convenzione dell’ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, il 20 novembre 1989, e ratificata dall’Italia con legge 27 marzo 1991, n. 176.  Le norme in essa contenute impongono a tutti gli Stati firmatari di tutelare il diritto del minore ad uno sviluppo armonico della personalità, a ricevere un’educazione nel rispetto dei valori di tolleranza, dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà e ad essere protetto da ogni forma di violenza fisica o psicologica. Di particolare interesse rispetto al tema che qui si affronta è il contenuto degli artt. 28 e 29 della Convenzione, nella parte in cui essi prescrivono agli Stati firmatari di «adottare ogni provvedimento per vigilare affinché la disciplina scolastica sia applicata in maniera compatibile con la dignità del fanciullo in quanto essere umano», ed ancora di «inculcare al fanciullo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».

La giurisprudenza ha da tempo ricavato dalla ratio delle norme convenzionali il principio generale secondo cui, ai fini della determinazione del c.d. jus corrigendi, non può considerarsi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, sia pure distortamente finalizzato a scopi ritenuti educativi, sia per il primato attribuito alla dignità della persona del minore, sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, tolleranza e convivenza, utilizzando mezzi violenti e costrittivi che tali fini apertamente contraddicono. L’uso di qualsiasi forma di violenza o vessazione comporta, invece, la commissione di reati, quali, ad esempio, percosse, lesioni personali o, in casi particolari ove l’uso della violenza da parte dell’educatore sia sistematico e frequente, il delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p.

La Corte di cassazione ha, infatti, affermato in più occasioni che «in ambito scolastico il potere educativo, quale che sia l’intenzione del soggetto attivo, deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento del minore, senza mai superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità» (Cass. Pen., Sez. VI, 14 giugno 2012, n. 34492; Cass. pen., Sez. VI, 21 gennaio 2020, n. 11777; Cass. pen., Sez. VI, 19 novembre 2020).

Anche nel caso in cui l’insegnante ricorra a metodi educativi in via ordinaria consentiti dalla disciplina generale e di settore, nonché dalla scienza pedagogica (come ad esempio l’esclusione temporanea dalle attività ludiche o didattiche, l’obbligo di condotte riparatorie, forme di rimprovero non riservate etc.), qualora l’intensità del rimprovero o la durata della punizione risultino particolarmente eccessive e comunque sproporzionate rispetto alla gravità del comportamento tenuto dall’alunno, potrebbe configurarsi il reato di “abuso dei mezzi di correzione e di disciplina” ex art. 571 c.p., qualora insorga il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente nei confronti dell’alunno (v. sul punto, ancora, Cass. pen., Sez. VI, 21 gennaio 2020, n. 11777; Cass. pen., Sez. VI, 19 novembre 2020, ove si evidenzia come la nozione di malattia cui fa riferimento l’art. 571 c.p., sia assai ampia, estendendosi fino a comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica della vittima, quale, ad esempio, lo stato d’ansia, l’insonnia, forme di disagio psicologico o, nel caso di minori di tenera età, anche il rifiuto della scuola, le ricorrenti manifestazioni di pianto o l’intolleranza ai rimproveri).

La Corte di cassazione in più occasioni ha evidenziato il presupposto applicativo del reato di abuso dei mezzi di correzione, specificando che esso risiede proprio nell’uso consentito e legittimo di tali mezzi tramutato, per l’eccesso, in illecito (appunto, in abuso). Ciononostante, episodi di violenza anche gravi, isolati o ripetuti, commessi dal personale educante e docente delle scuole, sono stati erroneamente inquadrati nella fattispecie di cui all’art. 571 c.p. In questi casi la Corte di cassazione, interpellata sulla qualificazione giuridica del reato, si è espressa affermando fermamente che il reato di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina non è configurabile «qualora vengano usati mezzi di per sé illeciti sia per la loro natura che per la potenzialità di danno» (Cass. Pen. Sez. V, n. 10841/1986). La Corte ha puntualizzato, infatti, che «qualsiasi forma di violenza, sia essa fisica o psicologica, non costituisce mezzo di correzione o di disciplina, neanche se posta in essere a scopo educativo; qualora di essa si faccia uso la condotta non rientra nella fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, bensì, in quella di percosse, o nelle fattispecie più gravi di lesioni o maltrattamenti» (Cass. Pen. Sez. VI, n. 11777/2020).

Più di recente, la Corte si è ancora espressa sul punto ribadendo, in via generale, i principi già enucleati in passato. Considerando, però, la ritrosia dei tribunali di merito nel continuare ad inquadrare atti di violenza, anche fisica, da parte degli insegnanti verso i loro allievi nella fattispecie di cui all’art. 571 c.p., la Corte ha voluto fornire anche una lettura, in chiave restrittiva, del concetto di mezzi di correzione, evidenziando come «le più recenti acquisizioni della cultura pedagogica hanno consentito di superare quelle tradizionali concezioni che ammettevano la liceità dell’uso della violenza, fisica o psichica, quale mezzo correttivo e disciplinare (…); i mezzi di correzione e di disciplina sono soltanto quelli leciti e consentiti, e tali non possono di certo ritenersi le percosse o comportamenti violenti, né l’uso di un linguaggio affatto educativo e correttivo, ovvero le limitazioni della libertà personale» (Cass. pen., Sez. VI, 6 aprile 2022, n. 13145; Cass. pen., Sez. VI, 12 dicembre 2022, n. 46924).

In realtà, il perseguimento di una finalità correttiva o educativa è del tutto irrilevante, giacché, proprio a fronte della peculiare qualità del destinatario del comportamento, bambino o adolescente che sia, ogni azione deve essere volta a realizzare l’armonico sviluppo della sua personalità e deve ritenersi preclusa qualunque condotta che assuma in concreto il significato dell’umiliazione, della denigrazione, della violenza fisica, della violenza psicologica.

Avv. Livia Bongiorno (Rete Dafne Italia)