Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

1° luglio 2021

Proposte ministeriali sulla giustizia penale: una discussione costruttiva

Intervento della Prof.ssa Mariavaleria del Tufo

intervento frutto anche di una riflessione comune con la Prof.ssa Valentina Bonini (Università di Pisa), con la Prof.ssa Elena Mattevi (Università di Trento) e con il Dr. Marco Bouchard (Rete Dafne Italia)

Giustizia riparativa ed effettività [1]

Giustizia riparativa e ruolo della vittima sono due temi di cui si sta parlando molto e in cui si ripongono grandi speranze di cambiamento. È questa, per il Paese, e per la giustizia penale, un’occasione molto importante che non può andare perduta. Viene offerta l’opportunità di rendere effettive idee che circolano oramai da decenni a livello internazionale e, da qualche anno, in maniera prima carsica, poi sommessa, infine timidamente operativa, nel nostro diritto interno.

Spesso citato nella Relazione, il diritto sovranazionale, in materia di giustizia riparativa e di vittime di reato, offre un corpus normativo molto ricco, sedimentato e allo stesso tempo in progress. Basti pensare alla Strategia sulle vittime 2020-2025 che l’UE ha recentemente elaborato e ai documenti dell’ONU e del Consiglio d’Europa sulla giustizia riparativa. A livello nazionale, i diritti processuali della vittima sono stati implementati dal D.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, con la trasposizione, ancorché lacunosa e parziale, della Direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Frammenti di giustizia riparativa, prima valorizzati in via interpretativa dalla giurisprudenza attraverso le disposizioni contenute nei “sistemi satellitari” della giustizia minorile e del giudice di pace, hanno trovato poi un accoglimento codicistico che tuttavia non sempre corrisponde al paradigma “classico” del modello. Le sperimentazioni hanno comunque dato risultati interessanti e la proposta Lattanzi mette in campo istituti da implementare o introdurre ex novo, e azioni da intraprendere per fare funzionare meglio la giustizia: nell’immediato, però, più la giustizia tout court che la giustizia riparativa in senso stretto.

Iscritto in una visione “alta” del processo come giusto e di ragionevole durata, secondo Costituzione e Convenzione, il rafforzamento e l’estensione di istituti che implicano pratiche risarcitorie o riparatorie coniugano il rispetto degli obblighi internazionali con l’esigenza di operare pragmaticamente una riduzione dei tempi della giustizia.

Anche se ciò che viene primariamente richiesto all’Italia dall’Europa è il raggiungimento di un accettabile livello di efficienza nell’amministrazione della giustizia, le azioni risarcitorie e riparatorie, altro tema primario a livello europeo, sono intelligentemente valorizzate laddove il loro utilizzo comporti esiti deflattivi. Lo dimostra la dettagliata regolamentazione proposta in fase estremamente precoce per evitare l’accesso al giudizio: così accadrebbe ad esempio per l’archiviazione meritata, anche se non è chiara la doppia incidenza della messa alla prova. In chiave deflattiva, sono riletti istituti introdotti in tempi recenti, come, appunto, la sospensione del procedimento con messa alla prova e l’esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, che vengono ampliati nella loro sfera di applicabilità. D’altra parte, una loro estensione era già ampiamente prevedibile, rispettivamente, per il successo della messa alla prova e in forza della sentenza della Corte costituzionale 156/2020 sulla portata dell’art. 131 bis. La stessa logica è sottesa alla valorizzazione delle condotte riparatorie e all’ampliamento dei casi di rimessione di querela. Funzionale all’obiettivo anche l’attribuzione al giudice della udienza pre-dibattimentale (art. 6 a bis) del compito di procedere alla verifica della percorribilità delle definizioni procedimentali alternative al dibattimento, dando così un’altra chance a una chiusura anticipata del procedimento.

Se le scelte della Riforma sono da vagliare in primo luogo in termini di velocità e efficienza, l’ampliamento del numero dei reati cui applicare gli istituti in parola raggiunge lo scopo, impedendo senza dubbio in molti casi di arrivare alla fase dibattimentale. Mi sembra che vengano soddisfatte così anche le più generali esigenze di cambio di passo nella politica sanzionatoria, da centrare, per molte tipologie di reato, sulla decarceralizzazione e sulle alternative alla pena, praticabili o dal punto di vista sostanziale o da quello processuale. Le proposte non dovrebbero comportare, da questo punto di vista, problemi di effettività.

Mi sembra inoltre che modificare il sistema con un aperto richiamo alla giustizia

riparativa sia un passaggio importante, a prescindere dagli ulteriori obiettivi da perseguire. Colpisce che la stessa Relazione esprima una diversa concezione se non del reato, delle modalità con cui affrontarne le conseguenze, affermando ad esempio che “i tempi sono maturi” per assicurare “un trattamento condiviso che sani la ferita aperta dalla commissione del reato”. Questa constatazione sembrerebbe segnare uno smottamento dalla concezione formalistica del reato verso le idee fondanti la giustizia riparativa. Potremmo dire che, se bisogna sanare la ferita aperta dalla commissione del reato, allora stiamo iniziando a intendere il reato, anche al di là di quella “violazione dei diritti della vittima” cui fa riferimento la Direttiva, come “danno” inferto alla vittima e alla comunità, un danno – secondo la Risoluzione Ecosoc del 2002 – “riparabile” attraverso un processo partecipativo della vittima e dell’offeso e, se del caso, di altre persone o membri della comunità, che insieme partecipano attivamente alla risoluzione dei problemi derivanti dal reato, generalmente con l’aiuto di un facilitatore.

La tensione verso un più ampio ricorso a strategie riparative, percepibile non solo nell’articolato ma anche nell’approccio generale, costituisce una sorta di fil rouge che lega passaggi importanti della Riforma. Essa fa sorgere tuttavia una serie di contraddizioni che lasciano perplessi. Infatti, se dovessimo valutare l’effettività in relazione al raggiungimento di un paradigma riparativo tradizionale, le disarmonie sarebbero non poche. Dipendono dalla difficoltà oggettiva di far convivere paradigmi di giustizia fondati su presupposti diversi, dall’esistenza di un pregiudizio di tipo culturale non facilmente sradicabile, da talune discordanze delle fonti internazionali, dal “non detto” che l’attuazione di queste scelte implica e dalle esigenze, anche finanziarie, sottese a un’effettiva integrazione nel sistema dei meccanismi riparativi, che non può essere attuata senza strutturare un forte impianto organizzativo.

Per quanto rilevato sinora, i problemi attengono all’utilizzo di un modello che si richiama a un particolare momento evolutivo del paradigma riparativo, non perfettamente coincidente, peraltro, con la nozione più comunemente accolta di giustizia riparativa. Quest’ultima, fatta propria dalla Direttiva, è centrata sul processo partecipativo volto a risolvere, col consenso delle parti, i problemi sollevati dal reato. In effetti, tutti gli istituti utilizzati – risarcimento, prescrizioni all’autore, predisposizione di itinerari risocializzanti o riparatori ecc. – potrebbero in astratto ben implementarsi su un percorso riparativo. Tra l’altro, in un recente passato, è bastato molto meno alla nostra migliore giurisprudenza per curvare alcune disposizioni in termini di apertura alla mediazione. Ma il ricorso alla giustizia riparativa funzionalmente all’obiettivo di fare le cose “in fretta” è quasi un ossimoro. Quantomeno nei suoi paradigmi classici, è infatti necessario un fattore ulteriore, il tempo, perché non è possibile stabilire quanto a lungo durerà il cammino per ottenere il risultato sperato: è un percorso di slow justice, in cui sono protagonisti l’ascolto, il confronto, l’elaborazione, la sedimentazione, il convincimento, la maturazione… E nonostante tutto potrebbe darsi – è nella natura delle cose – che non si raggiunga alcun tipo di accordo.

È allora necessario leggere in altra chiave il modello di giustizia riparativa accolto, peraltro riferibile a taluni documenti sovranazionali. Ad esempio, la Raccomandazione del 2018 del Consiglio d’Europa prevede sì la possibilità di utilizzare interventi che non includono il dialogo tra le parti, ma pur sempre applicando i principi della giustizia riparativa, e dunque coivolgendole comunque (Regola 59), normalmente con l’aiuto imparziale di un terzo (Basic Principles).

A queste condizioni, solo a queste condizioni, la via proposta potrà costituire una soluzione davvero apprezzabile, ma sarà necessaria una grande sensibilità da parte di tutti gli operatori e una curva di attenzione alle persone coinvolte tale da valorizzare al massimo la conformità delle pratiche ai principi fondamentali della giustizia riparativa, indipendentemente dal bisogno di chiudere velocemente il caso e tenendosi lontani da una lettura delle norme che guardi prevalentemente all’autore.

È dunque un problema di sensibilità culturale. I meccanismi usati potrebbero infatti portare a perdere di vista i risultati riparativi e a perpetrare il disequilibrio tra autore e vittima. Da questo punto di vista, oltre alle campagne di sensibilizzazione e di formazione, sarebbe importante esplicitare, come è stato ribadito più volte dal Consiglio d’Europa, che l’effettività dell’amministrazione della giustizia passa per la presa in conto anche dei diritti della vittima. Inoltre, è necessario fornire ulteriori, specifici segnali relativi all’attenzione riservata all’autore e alle dinamiche del giusto processo, per favorire la completa accettazione della figura della vittima da parte di tutti gli operatori, contribuendo così a scongiurare i rischi di vittimizzazione secondaria cui sono esposti in particolare i soggetti vulnerabili. La preoccupazione maggiore riguarda la consapevolezza degli strumenti: già nel 2007 la Commissione europea per l’efficienza della giustizia (CEPEJ) ne constatava la mancanza tra giudici, PM, avvocati, organizzazioni di assistenza alle vittime, autori, vittime e opinione pubblica, ritenendola uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo della mediazione. E il timore è che le cose non siano significativamente cambiate.

Alla giustizia riparativa intesa in senso più complessivo è dedicato l’art. 9 quinquies della Proposta di riforma. Qui i termini della delega dettagliano le aree di intervento. Il riferimento ai codici di diritto e procedura penale, all’ordinamento penitenziario e alle leggi complementari dimostra il recupero di quella connotazione propria della giustizia riparativa che la configura come accessibile in tutte le fasi del procedimento, dal momento della vittimizzazione primaria alla fase dell’esecuzione della pena. L’art. 9 quinquies, tuttavia, lascia ai decreti delegati la disciplina del meccanismo di funzionamento, confezionando direttive che dovranno essere necessariamente molto articolate in fase di attuazione della delega, perché, allo stato attuale, vengono richiamati quasi tutti i principi regolativi elaborati a livello sovranazionale, senza specificare quale potrebbe essere la disciplina in uscita. Che i decreti delegati affrontino con la massima consapevolezza questo punto è ovviamente decisivo per il successo dell’innesto nel sistema.

Quanto ai programmi di giustizia riparativa, va segnalato che la Direttiva vittime stabilisce che “si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell’interesse della vittima, in base ad eventuali considerazioni di sicurezza”. La Commissione ne ha invece previsto lo svolgimento nell’interesse prevalente della vittima. L’uso dell’aggettivo mira probabilmente a superare un’interpretazione volta a ritenere che i programmi possano essere svolti soltanto nel caso in cui siano nell’interesse esclusivo della vittima. È tuttavia l’accesso e non lo svolgimento che dev’essere subordinato a una valutazione in concreto della situazione, in modo da analizzare attentamente per entrambe le parti i fattori di rischio e le eventuali disparità che possano comportare squilibri di potere: in questo contesto però è l’interesse della vittima che decide del ricorso o no ai Servizi riparativi. Lo svolgimento dei programmi riparativi non può, al contrario, essere condotto nell’interesse della vittima, tantomeno nel suo interesse prevalente, ma deve essere ispirato a una equidistanza rispetto alle parti in gioco. L’indicazione della Commissione andrebbe pertanto differentemente formulata.

Un’altra criticità sul piano dell’adeguamento deriva dal comma e) dell’art. 9 quinquies, relativamente alla possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa senza preclusione in relazione alla gravità dei reati. L’indicazione si conforma ai dati derivanti dalla prassi e dalle ricerche condotte sul tema: i benefici della giustizia riparativa sono stati dimostrati anche rispetto a reati molto gravi. Si pensi che le Nazioni Unite hanno elaborato un documento in cui incoraggiano gli Stati membri, prestando particolare attenzione alle esigenze della vittima, a utilizzare la giustizia riparativa anche in contesti di violenza contro le donne. La legge delega indirizza verso l’applicabilità della giustizia riparativa a tutti i tipi di reato, ma le frizioni sul punto con l’opposta soluzione fornita dall’art. 48 della Convenzione di Istanbul dovrebbero essere tenute presenti, forse argomentando, sulla base dell’art. 73 della Convenzione stessa, che il ricorso ai programmi riparativi, in base a nuove evidenze, riconoscerebbe dei diritti più favorevoli per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. Sarebbe vitale, a questo punto, il coinvolgimento dei Servizi di assistenza e dei Centri antiviolenza.

Vi è, a tal proposito, una lacuna nell’art. 9 quinquies che andrebbe colmata. Nonostante le articolate disposizioni della Direttiva UE, i Servizi di assistenza alle vittime di reato, cruciali per l’effettività della tutela, non sono stati infatti mai presi in conto dal legislatore italiano, e il silenzio continua anche nella Proposta della Commissione. Cosa ancora più inquietante, l’operatività stessa del modello viene in tal modo compromessa, poiché, nella pratica, sono proprio i centri di assistenza, dopo la prospettazione condivisa di un percorso, a fare da tramite tra le vittime e i servizi di giustizia riparativa. Sarebbe pertanto essenziale, integrando l’art. 9 quinquies lettera c), dare indicazioni specifiche affinché si tenga conto – almeno – del coordinamento tra Servizi di assistenza e Servizi di giustizia riparativa, al meglio attraverso il Tavolo interistituzionale dedicato presso il Ministero della Giustizia. In un’ottica di doverosa attuazione della Direttiva Vittime, le funzioni dei Servizi di assistenza dovrebbero nel contempo essere valorizzate in più punti, per rendere effettiva l’applicazione dei principi riparativi in istituti, utilizzati in funzione prevalentemente deflattiva, che dovrebbero invece costituire punti di snodo importanti per coinvolgere la vittima in percorsi di riparazione.

Chiudo rilevando la bizzarra disciplina di cui all’art. 1-bis che, per completare la trasposizione della Direttiva Vittime, meritoriamente introduce nel sistema la definizione di vittima fornita dalla Direttiva, utilizzandola, però, soltanto in funzione della legittimazione alla costituzione di parte civile. Il discorso si ferma qui, risolvendosi dunque in un contributo un po’ debole in rapporto all’ambizione della Proposta a riconfigurare il sistema secondo una logica di attenzione alla vittima.

[1] Il contributo è frutto anche di una riflessione comune che desidero portare avanti col Presidente di Rete Dafne Italia per le vittime di reato, dott. Marco Bouchard, e con le colleghe Valentina Bonini ed Elena Mattevi, nel tentativo di offrire linee di pensiero condiviso al dibattito.