Maltrattamenti in famiglia: basta la violenza verbale per far scattare l’aggravante della violenza assistita da minori. Netta la linea di demarcazione tra lite familiare e violenza domestica.

«Perché operi l’aggravante della violenza assistita non occorre che le condotte vessatorie realizzate in presenza dei minori abbiano necessariamente il contenuto proprio della violenza fisica, potendo apprezzarsi a tal fine anche quelle verbalmente violente o tipicamente dispregiative che contribuiscono, nella loro abitualità, a dare corpo al contesto maltrattante destinato a fondare l’ipotesi di reato di cui all’art. 572 c.p.».

In tali termini si è di recente espressa la Corte di cassazione, con la sentenza n. 17845 del 7 maggio 2024, in tema di sussistenza dell’aggravante di maltrattamenti familiari assistiti da minori.

In particolare, la pronuncia in esame prende le mosse dal ricorso presentato da un uomo condannato in primo e secondo grado di giudizio per il reato di cui all’art 572 comma 2 c.p., realizzato nei confronti della moglie ed in presenza dei figli minori, oltre che del reato di lesioni aggravate sempre realizzate in danno della moglie.

Con il ricorso l’imputato lamentava la violazione di legge e il vizio di motivazione perché la Corte del merito aveva ritenuto sussistente il reato di maltrattamenti malgrado l’occasionalità delle condotte aggressive e nonostante la dimostrata capacità della persona offesa di reagire a dette aggressioni prontamente e fattivamente.

Altra doglianza, attinente questa volta alla sussistenza dell’aggravante della violenza assistita da minori, si basava sulla circostanza dichiarata dalla persona offesa per la quale i figli della coppia non avevano mai assistito alle violenze di tipo fisico perpetrate dal padre nei confronti della madre.

Il narrato della persona offesa evidenziava, in realtà, ben cinque aggressioni fisiche gravissime, per le quali erano intervenute anche le forze dell’ordine ed evidenziava, altresì, come dette condotte si erano innestate in un più ampio contesto di condotte aggressive, violente, di tipo fisico e verbale, dell’imputato, tutte connotate dall’abitualità dell’agire. Di conseguenza, secondo il narrato della vittima, era tuttavia certa la presenza dei figli minori ai numerosi litigi per motivi economici o legati all’uso di alcol da parte dell’imputato, tutti scaturenti dai contegni vessatori di quest’ultimo.

Per tali ragioni la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di condanna dell’imputato osservando come, alla luce del complessivo contesto familiare, dominato dagli agiti, anche solo verbalmente aggressivi, realizzati dall’imputato ai danni della persona offesa, sia risultato adeguato e puntuale il corredo probatorio posto a sostegno della ritenuta aggravante.

Nella questione appena affrontata acquista particolare rilievo il tema della corretta individuazione del perimetro all’interno del quale si sviluppa e prende forma la cd. violenza verbale, soprattutto in relazione alla corretta interpretazione della linea distintiva che intercorre tra la stessa violenza verbale perpetrata ai danni del familiare e le mere “liti familiari”.

Anche su tale delicato aspetto è intervenuta la Cassazione precisando come la linea di demarcazione sia, in realtà, assolutamente netta.

Con la sentenza n. 37978 del 2023 e, da ultimo, con la n. 17656 del 3 maggio 2024, la quinta Sezione della Corte di cassazione ha fermamente stabilito che, in piena adesione all’orientamento consolidato della stessa Corte in materia di violenza domestica, anche alla luce delle fonti sovranazionali (quali la Convenzione di Istanbul), e della giurisprudenza della Corte EDU, ciò che qualifica la condotta come maltrattante, in un necessario quadro di insieme, è che i reiterati comportamenti, anche solo minacciati ed operati a diversi livelli, fisico o psicologico, o ancora economico, nell’ambito di una relazione familiare o affettiva, siano deliberatamente volti a ledere la dignità della persona offesa, ad annientarne pensieri ed azioni indipendenti, a limitarne la sfera di libertà di autodeterminazione, a ferirne l’identità di genere con violenze psicologiche ed umiliazioni, in quanto è il disegno discriminatorio a guidare l’autore del reato di violenza domestica.

La Cassazione con la citata pronuncia ha osservato come il giudice, in ambito di maltrattamenti contro familiari e conviventi, non è solo tenuto a valutare gli episodi più gravi, perché colpiscono l’integrità fisica o costituiscono specifici reati, ma deve anche valorizzare e descrivere in modo puntuale il contesto diseguale di coppia nel quale si consuma la violenza, anche psicologica, praticata dall’autore ed il clima di umiliazione e paura che viene imposto alla vittima.

Al riguardo, la Corte, criticamente riprendendo i giudici di merito, ha posto rilievo al fatto che la confusione tra maltrattamenti e liti familiari avviene quando non si esamina e, dunque, non si valorizza l’asimmetria di potere che connota la relazione e di cui la violenza costituisce la modalità più visibile.

Nel caso specifico della violenza domestica di genere, qualificare l’intimidazione, la minaccia, le lesioni, i danneggiamenti, la coercizione di un uomo ai danni di una donna, in un contesto familiare o di coppia, come un conflitto non solo deforma dati oggettivi, ma viola i principi fondamentali dell’ordinamento, a partire dall’art. 3 della Costituzione che impone di ritenere le donne in una condizione paritaria, giuridica e di fatto, rispetto agli uomini, perché titolari del diritto alla dignità e alla libertà, cioè di diritti umani fondamentali ed inalienabili, che non possono subire lesioni, neanche occasionali, in base a costrutti sociali o interpretativi fondati sull’accettazione e la normalizzazione della disparità di genere.

La linea distintiva tra violenza domestica e lite familiare è netta: si consuma il delitto quando un soggetto impedisce ad un altro, in modo reiterato, persino di esprimere un proprio autonomo punto di vista se non con la sanzione della violenza anche solo verbale e psicologica. Mentre, ricorrono le liti familiari quando le parti sono in posizione paritaria e si confrontano, anche con veemenza, riconoscendo e accettando, reciprocamente, il diritto di ciascuno di esprimere il proprio punto di vista e, soprattutto, quando così facendo nessuno teme l’altro.

Avv. Livia Bongiorno (Rete Dafne Italia)