Il diritto all’equa riparazione per irragionevole durata del processo: quali limiti per la vittima?

 Il diritto alla ragionevole durata del processo nel nostro ordinamento è garantito da due importanti precetti sovraordinati, uno contenuto nell’art. 111, comma 2, della Costituzione, secondo il quale “la legge assicura la ragionevole durata del processo (…)”, l’altro nell’art. 6, par. 1, della CEDU, in base al quale “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente e pubblicamente entro un termine ragionevole (…)”.

A questi principi mira a fare da presidio la legge Pinto (L. 24 marzo 2001, n. 89), relativa al diritto ad un’equa riparazione da riconoscere alla parte processuale il cui processo abbia subito ingiustificabili ritardi: essa nell’attribuire tale diritto anche alla parte civile, prevede all’art. 2, comma 2 bis che, ai fini del calcolo della durata, il processo penale si consideri iniziato quando la persona danneggiata dal reato si sia costituita parte civile.

Poiché la costituzione di parte civile può essere effettuata solo dopo che il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale, ai fini della valutazione della ragionevolezza o meno della durata del processo penale, dunque, è di tutta evidenza che non assume rilievo alcuno la fase delle indagini preliminari, che pure può coprire una fascia temporale assai considerevole,

Alla luce di queste considerazioni, l’art. 2, comma 2-bis della c.d. Legge Pinto è stato oggetto di questione di legittimità costituzionale, nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato per la persona offesa soltanto con l’assunzione della qualità di parte civile.

In particolare, la vicenda dalla quale è sorta la querelle riguarda il caso di una vittima di aggressione che nel 2010 presentava querela e che, nonostante le sollecitazioni all’autorità giudiziaria a compiere atti di indagine e il deposito di proprie indagini difensive, vedeva emettere solo cinque anni più tardi il decreto di citazione a giudizio da parte pubblico ministero e, a seguito di vari rinvii, solo nel 2019 riusciva a costituirsi parte civile per sentire, comunque, pronunciare al giudice, durante la stessa udienza, sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione.

La persona offesa promuoveva, pertanto, ricorso per richiedere equa riparazione per irragionevole durata del processo, adducendo l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, co. 2 bis, l. 89/2001, poiché, in linea con l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e con l’interpretazione di tale norma fornita da parte della Corte Europea.

La Corte di Strasburgo, infatti, non attribuisce rilievo esiziale alla distinzione formale tra persona offesa e parte civile, affermando che, ai fini del diritto dell’offeso alla durata ragionevole del processo, l’inizio di questo ben può essere individuato nel momento della presentazione della querela o dall’esercizio di altre facoltà da parte della persona offesa, poiché già dal compimento di tali atti sarebbe riconoscibile il suo interesse al risarcimento del danno da reato (caso Arnoldi c. Italia, 2017). In questo modo sarebbe possibile dare rilievo anche alla fase delle indagini preliminari, in analogia a quanto avviene per il riconoscimento dello stesso diritto alla durata ragionevole in capo all’imputato, a seguito di quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184 del 2015.

Invece, la Corte costituzionale, pur ravvisando la sussistenza di un problema effettivo nell’ordinamento italiano relativo ai ritardi nello svolgimento delle indagini preliminari, alle lungaggini processuali e alla conseguente vanificazione delle pretese riparatorie dell’offeso dal reato, ha comunque ritenuto la questione di legittimità costituzionale non fondata: richiamando quanto già affermato nella sentenza n. 249 del 2000, i giudici costituzionali hanno ritenuto che la previsione dell’art. 2, comma 2 bis, della legge 89/2001 si basi su scelte sistematiche coerenti da parte del legislatore, date dalla differenza tra gli interessi della persona offesa e quelli della parte civile.

Secondo la Corte, infatti, per collocare la decorrenza del termine di ragionevole durata del processo al momento della presentazione della querela occorrerebbe verificare una necessaria, e non occasionale, identità tra persona offesa e parte civile, sotto il versante dell’interesse al risarcimento. In altre parole, sarebbe necessario poter affermare che la persona offesa, nel compiere gli atti di impulso procedimentale, persegua un interesse di natura civile anche durante le indagini e che la sua esigenza di accertamento del fatto/reato sia connessa proprio a quell’interesse civilistico, risarcitorio o restitutorio, e non ad una pretesa punitiva del responsabile fine a sé stessa.

Invero, ha ricordato la Corte, l’art. 6 della CEDU non riconosce di per sé il diritto a far perseguire o condannare penalmente terze persone ma, per rientrare nel campo di applicazione della norma convenzionale, tale diritto deve piuttosto andare di pari passo con l’esercizio da parte della vittima del suo diritto di intentare l’azione per la riparazione del danno o per la protezione di un diritto di carattere civile: così, peraltro, la Consulta ha citato la pronuncia della Corte EDU nel caso Petrella c. Italia, del 2019, ove, comunque, è stata ravvisata la violazione della norma convenzionale ed è stato evidenziato che il periodo da considerare, nell’ambito di un procedimento penale dal punto di vista del termine ragionevole, inizia, per la persona che sostiene di essere stata lesa da un reato, nel momento in cui la stessa esercita uno dei diritti e facoltà che le sono espressamente riconosciuti dalla legge, quale, ad esempio, la proposizione della querela.

Tuttavia, la Corte costituzionale ha affermato chiaramente che sarebbe erroneo assimilare automaticamente gli interessi dell’offeso in fase di indagini preliminari e quelli della parte civile durante il processo, innanzitutto, osservando come la persona offesa dal reato e il soggetto al quale il reato ha recato danno non sono sempre coincidenti. Inoltre, in capo alla persona offesa si concentrano, in realtà, interessi di natura duplice e non omogenea: un interesse all’affermazione della responsabilità penale dell’autore del reato che si esercita mediante l’attività di supporto e di controllo dell’operato del pubblico ministero; un altro interesse diretto al risarcimento del danno che si esercita tramite la costituzione di parte civile. Infine, le facoltà e i diritti attribuiti per legge alla persona offesa, e non anche al danneggiato, consistenti indicativamente nel presentare memorie, indicare elementi di prova, proporre querela, interloquire sulla richiesta di archiviazione, sono volti a coadiuvare il pubblico ministero ai fini dell’esercizio dell’azione penale, ovvero a conseguire l’accertamento del fatto-reato e la giusta punizione del colpevole e, in ogni caso, rimangono estranei all’ambito del “diritto di carattere civile in causa”, di cui all’art. 6 della Convenzione.

Con un argomentare un po’ pilatesco, il giudice costituzionale afferma che la risposta alla problematica concernente il riconoscimento del diritto alla “vittima di un reato” al sollecito svolgimento del procedimento penale non possa essere ricavata dalla normativa sulla equa riparazione, ma che piuttosto vada ricercata facendo ricorso ad altre azioni e in altre sedi. La soluzione non sta, infatti, nel censurare il contenuto della norma di cui all’art. 2, comma 2 bis della l. 89 del 2001, con riguardo al computo del termine di ragionevole durata del processo penale per la parte civile, quanto piuttosto nella previsione di un percorso legislativo che possa soddisfare in modo più compiuto le istanze della vittima del reato durante l’intero corso del procedimento penale.

Dopo aver escluso, con argomento non esente da formalismo, che la persona offesa e la parte civile condividono un comune interesse al risarcimento, inopinatamente la Corte costituzionale chiude il proprio argomentare invocando un uso della giustizia riparativa finalizzato ad accogliere i diritti di natura civile della vittima.

Facendo quindi espresso riferimento alla legge delega del 27 settembre 2021, n. 134 (recante «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari»), la Corte lancia un monito al legislatore ed al governo auspicando l’introduzione nell’ordinamento di una disciplina organica della giustizia riparativa che possa realmente valorizzare il ruolo della vittima del reato e soddisfare le aspettative della stessa sia in ordine al riconoscimento del torto subito da parte del responsabile, sia rispetto alle pretese risarcitorie per il danno cagionato.

Avv. Livia Bongiorno (Rete Dafne Italia)

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