Tutela della vittima di atti persecutori e remissione processuale della querela.

Cass. Pen., Sez. V, Sent. 10 dicembre 2021 (dep. 10 febbraio 2022), n. 4890.

 

Il delitto di atti persecutori, inserito nel codice penale con il decreto legge n. 11/2009, punisce le condotte delittuose caratterizzate, in generale, da un ossessivo “stillicidio” persecutorio perpetrato nei confronti della vittima nella sua quotidianità.

Pur non essendo rivolta a tutelare specifiche categorie di vittime, lo stalking sovente si consuma in danno di soggetti vulnerabili che si trovano in una condizione di soggezione, di inferiorità psichica rispetto all’aggressore. Proprio per tale motivo il legislatore ha predisposto una disciplina peculiare relativa alle condizioni di procedibilità per il reato di atti persecutori, al fine di escludere che pressioni esterne possano determinare (prima o durante il procedimento penale) la vittima a rinunciare ad agire contro l’accusato.

In particolare, l’art. 612-bis, quarto comma c.p.p. stabilisce che, salvo casi di particolare gravità per i quali si procede d’ufficio, il delitto sia perseguibile a querela della persona offesa. Pur valorizzando in parte la volontà della vittima di intraprendere la via giudiziaria, si è dettata una regolamentazione che mira a contenere l’eventualità in cui la vittima decida di interrompere il procedimento penale, a seguito di inviti pressanti, minacce, artificiosi tentativi di riappacificazione o altri tipi di pressioni che alterano il sereno e libero formarsi della volontà della persona offesa. Così, oltre ad escludersi la revocabilità della querela quando siano state rivolte all’offeso minacce reiterate e gravi, si è previsto che la remissione della stessa possa essere solo di tipo “processuale”.

La forma processuale della remissione induce a ritenere che l’intento del legislatore sia quello di riconoscere validità alla stessa solo quando avvenuta dinanzi all’autorità giudiziaria procedente, con l’evidente finalità di valutare con particolare rigore la spontaneità della decisione della vittima a riguardo, che dovrà risultare libera e non condizionata da timori e influenze esterne.

Nonostante la chiarezza della norma in parola sembrano permanere dubbi ed incertezze di carattere interpretativo tra gli operatori, i quali di volta in volta avanzano delle richieste sostanzialmente miranti a letture più morbide o più estensive. La sentenza della Corte di cassazione che qui si segnala è proprio frutto di una questione posta dal ricorrente nel tentativo di fare breccia nella rigida rete di protezione che il legislatore ha voluto porre intorno alla vittima di stalking.

Il caso riguarda un ricorso per Cassazione proposto dall’imputato avverso una sentenza della Corte d’Appello di Brescia, che lo aveva condannato per il reato di atti persecutori ai danni dell’ex fidanzata e della sua famiglia. Il ricorrente, nello specifico, lamentava l’improcedibilità del reato contestatogli per avvenuta remissione di querela, formalizzata ed accettata dall’imputato nell’ambito di una transazione tra le parti, e successivamente depositata presso la cancelleria della Corte d’appello di Brescia.

L’imputato chiedeva, pertanto, alla Corte di riconoscere l’effetto della remissione di querela perfezionata in sede extraprocessuale, così estinguendo il reato di atti persecutori per cui era stato condannato.

Contrariamente a quanto auspicato dall’imputato, la Corte ha ritenuto che una siffatta modalità di remissione non rispetti le formalità prescritte dalla legge.

La Corte ha, infatti, chiarito che il fermo riferimento dell’art. 612-bis c.p., alla remissione «processuale» della querela assegni rilievo, in forza degli artt. 152 c.p. e 340 c.p.p., solo ai casi in cui la remissione di querela sia avvenuta con dichiarazione resa dinanzi all’autorità giudiziaria ovvero ad ufficiale di polizia giudiziaria. L’esplicito riferimento normativo vuole evidenziare, infatti, secondo quanto osservato dalla Corte, come solo la ricezione di tale atto – almeno – da parte della polizia giudiziaria possa soddisfare, per esplicita scelta del legislatore, le esigenze di effettiva verifica della libertà di autodeterminazione della persona offesa che la previsione della dimensione esclusivamente processuale della remissione sottende.

La conclusione della Corte è in linea con quella già espressa dalle Sezioni Unite (Cass. S.U., 23 giugno 2016, n. 31668), che, seppur non pronunciandosi in ordine al delitto di atti persecutori, hanno ritenuto in modo ancora più restrittivo che la remissione processuale della querela possa avvenire solo attraverso una formale dichiarazione ricevuta dall’autorità procedente. In tale prospettiva la previsione dell’art. 612-bis, comma 4, c.p., impedirebbe di attribuire rilievo a forme di remissione diverse da quelle presentate personalmente dal querelante di fronte all’autorità procedente, escludendo quindi anche la possibilità di rimettere la querela dinanzi alla polizia giudiziaria.

Non può non vedersi, in effetti, come la condizione di particolare vulnerabilità e debolezza, talvolta anche meramente economica, nella quale può versare una vittima di atti persecutori, imponga un’attenta verifica delle ragioni sottese alla scelta di remissione della querela. A tal fine è necessaria una conoscenza approfondita del caso concreto, che soltanto il pubblico ministero in fase di indagine o il giudice in fase di giudizio possono vantare, oltre che una particolare cura e attenzione a cogliere gli indici di uno squilibrio relazionale che potrebbe portare la vittima a rimettere la querela al solo fine di “limitare i danni”.

In ogni caso, è certo che una così delicata verifica non possa svolgersi con la mera lettura dell’atto di remissione della querela depositato nella cancelleria del giudice, quand’anche fosse il risultato di un accordo raggiunto in sede extraprocessuale tra le parti.

Un accordo transattivo, tra l’altro, di norma non viene raggiunto direttamente e personalmente dalle parti interessate dalla lite, ma tramite l’intermediazione dei loro legali e, tendenzialmente, esso si limita al riconoscimento di reciproche concessioni soprattutto di natura economica. Restano quindi irrisolte le vere ragioni che hanno dato origine all’illecito, talvolta assai grave ed insidioso come quello degli atti persecutori. È evidente che la mera produzione di un verbale inerente ad una siffatta “pace giuridica” non possa di per sé rappresentare compiutamente la volontà della parte offesa in ordine alla remissione della querela.

Per certi versi, infine, la rilevanza accordata alla sola remissione processuale, escludendo l’idoneità della transazione privata a chiudere il processo per stalking, si pone in linea con la Convenzione di Istanbul in materia di violenza domestica e contro le donne. All’art. 48, essa infatti fa divieto a tutti gli Stati contraenti di ricorrere a metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, comprese conciliazioni o mediazioni, o a misure alternative alle pene obbligatorie in relazione a tali particolari forme di violenza.

Pur trattandosi di un divieto solo parziale, poiché rivolto alle sole negoziazioni obbligatorie, è comunque imposto in relazione a qualsiasi transazione, mediazione e altro metodo alternativo di risoluzione del conflitto:  lo scopo del divieto posto dalla Convenzione di Istanbul nei procedimenti per violenza domestica e relazionale è motivato proprio dalla consapevolezza che in simili ambiti criminologici la vittima viene frequentemente esposta a pressioni che non consentono di determinarsi in modo del tutto consapevole e libero verso la desistenza da iniziative giudiziarie.

Avv. Livia Bongiorno (Rete Dafne Italia)

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